[ Pobierz całość w formacie PDF ]
Fabio Volo
ESCO A FARE DUE PASSI
MONDADORI
Alla mia famiglia
Mi dice la mia casa:
«Non abbandonarmi, il tuo passato è qui».
Mi dice la mia strada:
«Vieni, seguimi, sono il tuo futuro».
E io dico alla mia casa e alla mia strada:
«Non ho passato, non ho futuro.
Se resto qui, c’è un andare nel mio restare;
se vado là c’è un restare nel mio andare.
Solo l’amore e la morte cambiano ogni cosa».
Kahlil Gibran
Buon compleanno. Auguri
Fuori piove. Ho deciso. Cioè non è che ho deciso che fuori piove, pioveva
già. Ho deciso che ti scriverò una lettera. Oggi che è anche il tuo compleanno.
Trentatré per l’esattezza. Così può essere come un regalo, un pensiero, non è un
pacco ma una busta... durerà di più.
Mentre apri un pacco, c’è sempre un filo di imbarazzo. La paura che tu non
riesca a essere veramente entusiasta nel vedere il regalo. La paura che sul tuo
viso si legga quel «che cazzo ci faccio io con ’sto coso qui». Quell’imbarazzo
simile a quando qualcuno che non conosci bene inizia a raccontarti una
barzelletta, e tu speri veramente che ti faccia ridere, ma magari a metà scopri
che la sai già e devi far finta di niente perché ti spiace dirglielo.
Niente imbarazzo tra noi: solamente una lettera.
Quando apri un pacco finisce tutto.
Oh... una maglietta, grazie.
Oh... le Nike, grazie.
Oh... una stampante, grazie mille.
Una lettera occupa meno spazio e più tempo. Ma siccome questo vale anche
per i libri, i cd e le videocassette, mi sono accorto di averti scritto una gran
cazzata. Scusa.
Cominciamo bene.
Ricomincio:
ha smesso di piovere. E anche stavolta io non c’entro. Peccato, mi piace di
più scrivere quando sento la pioggia. Aprirò la doccia.
Buongiorno Nico, ma soprattutto buon compleanno.
Da oggi per un anno saranno trentatré, come gli anni di Cristo o come
l’Alfa Romeo di Matteo.
Come ti senti? È diverso da quando ne avevi ventotto come me?
Sicuramente sì, ma sarei curioso di sapere che cosa è diverso, che cosa è
veramente cambiato.
Sono passati circa cinque anni da quando ti ho scritto la prima volta e
negli ultimi cinque anni nella mia vita ne sono cambiate di cose, figuriamoci
nella tua.
Cerco di immaginare dove sei ora, mentre leggi questa lettera, ma la
memoria che ho di te è vecchia.
Ho deciso di scriverti perché è un periodo strano, di confusione
silenziosa. Mi sento come anestetizzato dalla vita, sento che deve succedere
qualcosa, ma non so cosa. O forse è solo il mio desiderio di cambiamento che me
lo fa pensare.
Ma qualcosa mi manca. Ti ricordi? È sempre stato così, lo sento da come
respiro la vita.
Sento che mi manca come se mi fosse già appartenuta e qualcuno me l’avesse
portata via.
Ma non so esattamente cos’è.
C’è chi cerca l’altra metà della mela, io sto cercando ancora la mia mezza.
Sono uno spicchio di me stesso.
Ho deciso di parlartene, di scriverti perché tu sei più grande, hai visto e
vissuto molte più cose di me, e magari la tua metà l’hai trovata.
Credo che ti chiederò un sacco di cose, perché in questo momento sono un
po’ confuso. Non capisco. È un po’ che penso a questa lettera, a cosa scriverti,
ma non tutti i miei pensieri arriveranno a te perché la mente è più veloce della
mano e quindi tanti di loro andranno persi. Quello che ti scriverò sarà ciò che
la mano e la memoria riusciranno a catturare. Saranno sicuramente pensieri
confusi, pieni di contraddizioni e forse anche un po’ banali.
Nico, mi sembra di diventare semplicemente un trionfo di luoghi comuni:
anzi, ho paura di esserlo già.
Comunque, ho ventotto anni e ci capisco meno di quando ne avevo venti.
Speravo che crescendo sarebbe stato tutto più chiaro. Speravo di capire le cose
che voglio, i miei obbiettivi, i miei gusti, i miei desideri, e invece no, qui è
sempre tutto da capo. A volte vorrei già essere più grande. Avere quell’età in
cui ciò che volevo fare purtroppo non l’ho fatto, ma ormai è tardi, e così lo
metto via e non ci penso più. Mi accontento, mi standardizzo, insomma mi
sistemo.
Ma quali cacchio sono le cose che voglio fare?
Per esempio, parlando di lavoro, ti ricordi di Paolo? Lui alle medie diceva
che avrebbe fatto l’architetto, e architetto è diventato: ha scelto la sua
strada e l’ha percorsa. Via degli architetti.
Io invece la mia strada non l’ho ancora decisa, o meglio non l’ho ancora
capita. A volte ne inizio una e poi a un certo punto non mi piace più il
paesaggio che vedo, e allora esco alla prima uscita. O al massimo la ritardo e
mi blocco in qualche Autogrill.
Non mi pongo nemmeno il problema di capire se sia giusto o no percorrere
una strada e cercare di arrivare il più lontano possibile, perché il mio
problema è un passo indietro. Il mio problema è: Qual è la mia strada?
Forse è solo una questione di immaturità: non voglio fare il salto, non
voglio saltare la mia linea d’ombra, ma il fatto è che oltre a non sapere cosa è
giusto o sbagliato per me, non posso nemmeno saltare perché non vedo nessuna
nave nel mio porto. Sono un passo indietro dal decidere tra la cicala e la
formica.
C’è anche da dire che io sono molto umorale. Ci sono giorni che mi sveglio
e vorrei cambiare ogni cosa, scoppio di sicurezza e mi sento come Tony Manero
quando esce di casa e dice: «Vado a farmi il mondo». Poi magari il giorno dopo
sono l’uomo più insicuro dell’universo, mi faccio mille domande e tutto diventa
come un’enorme cartina geografica da ripiegare – una cosa che non sono mai stato
capace di fare. Quando ne apro una rimane aperta sul sedile dietro della
macchina per mesi. Tiene compagnia alle bottigliette d’acqua vuote che
rotolandoci sopra mentre viaggio diventano passeggeri metaforici della mia vita
e del mondo.
In questo periodo mi sento come Alice nel paese delle meraviglie quando
mangia il fungo e passa da grande grande a piccola piccola.
Il mio umore è come un pene insicuro e indeciso. Un po’ guarda in su e un
po’ guarda in giù.
Insomma, continuo a camminare, poi torno indietro, faccio un passo avanti,
due di lato. Il mio non è un cammino, ma la danza tribale di un ballerino
bendato, con qualche livido.
A volte vorrei mollare tutto. Vorrei andarmene da qualche parte nel mondo,
perché ci sono giorni che qui mi sta stretto tutto. Questo mio disagio non mi fa
capire dove sta il coraggio. Se lascio tutto e me ne vado, è coraggioso, o sto
solo scappando? O è più coraggioso rimanere, affrontare le cose e cercare di
cambiarle? Non capisco dove sta la mia libertà, non capisco da cosa sono
schiavizzato.
Immaturo, immaturo, immaturo.
Addirittura ci sono dei giorni che affido le mie decisioni a dei giochetti.
Tipo: se si apre l’ascensore entro cinque secondi, o se nel camminare pesto
delle righe del marciapiede, se accendendo il cellulare ricevo un messaggio,
allora la mia decisione dev’essere sì. Se non succede, è no. A volte invece in
metropolitana o in treno o sull’autobus mi fisso su una persona, mi concentro e
mi ripeto: «girati girati guardami guardami girati adesso e subito». Se si gira
è sì.
Ma il colmo è che se la decisione non mi convince, o non è quella che
voglio veramente, penso che non vale e che era solo un pre-riscaldamento, e
riprovo. Anche due o tre volte.
Sento che ho perso in modo chiaro il mio obbiettivo: c’è nebbia qui, nebbia
e foschia.
Mi sento come uno scalatore appeso alla parete rocciosa che vede solo ciò
che ha davanti appiccicato al naso, e non riesce più a vedere la cima, la vetta,
il motivo per cui sta scalando, e nemmeno cosa sta scalando.
Forse ho bisogno di scendere un attimo e chiarirmi bene le idee.
Mi sento solo, Nico, non vedo e non sento nessuno che mi capisca veramente
fino in fondo, forse perché sono già io il primo che non si capisce, ma qui,
credimi, è tutto un delirio.
Ho sempre voluto fare ciò che volevo nella vita, sono sempre stato pronto a
rimettere tutto in gioco, spinto dalla solita irrequietezza, voglia di cambiare,
di scappare, di iniziare. Del resto, ho sempre dato il massimo di me negli
incominci. Quando inizio una cosa sono sempre bravo, poi mi perdo, piano piano
mi spengo, sono come un libro che ha un’introduzione della madonna, ma già nel
secondo capitolo si ridimensiona tutto, e lo butteresti nel cesso.
Come quando mi viene il trip di mettere in ordine la stanza e tiro fuori
tutto dai cassetti e dagli armadi e poi mi stufo e non ho più voglia di mettere
a posto e mi trovo in mezzo a un casino peggio di prima.
Negli investimenti a lungo termine sono decisamente la persona meno adatta.
Lo si capisce anche dal fatto che nella mia vita non ho mai comprato un
salvadanaio senza il buco sotto. Quelli dove c’è solo il taglietto sopra, mai. I
miei sotto hanno sempre avuto il tappo, infatti un sacco di volte sono andato a
sfilare i millini, o semplicemente a contare quanti soldi c’erano.
Nella pagina delle cose certe che voglio nella mia vita ci sono scritte
poche righe, fra l’altro qualcuna anche a matita, mentre in quella delle cose
che non voglio c’è più roba, c’è più sicurezza, più determinazione. Tutto questo
per dirti che anche in questo momento, come ho scritto prima, non so esattamente
cosa voglio – come sempre, anche in questo momento so solo ciò che non voglio. E
non ti sto parlando di lavoro, non ti sto parlando di professione. Parlo di
ruoli: non so in che ruolo sto giocando questa partita e non so che ruolo
giocare. Sinceramente non ho nemmeno capito che gioco è.
Devo essere più responsabile o va bene così?
Ci sono dei giorni in questi ultimi anni che mi sento assalire da una
sensazione di irrequietezza. In quei giorni non ho voglia di uscire e nemmeno di
rimanere in casa. Vorrei strapparmi la pelle di dosso. Anche il mio corpo
diventa una gabbia.
È come se la vita in quei momenti mi infilasse un dito nel sedere. Se sto
seduto lo sento e mi viene istintivo alzarmi, se cammino lo sento e mi viene da
sedermi. Con quel dito in quel posto è come se la vita mi volesse dire che non
c’è più tempo da perdere, che c’è da prendere una decisione, che non si può più
fare finta di niente. Ho provato a distrarmi in un sacco di modi per cercare di
non sentirlo: shopping, sesso, droghe, viaggi, ma quel dito rimane. Devo capire
come si toglie.
AIUTOOOO!!!
Immaturo, immaturo, immaturo.
Il direttore della radio dove lavoro mi ha offerto un contratto di cinque
anni come speaker e collaboratore. Mi ha detto: «Se accetti, oltre ad avere un
aumento notevole di stipendio, la cosa che più conta è che come collaboratore ti
si apre una possibilità di crescere professionalmente e di pensare al futuro in
modo più sereno. È una grande occasione, non puoi pensare di fare lo speaker
tutta la vita».
Questa «grande occasione» invece che farmi contento, mi ha mandato in
sbattimento. Come è la vita: qualche anno fa per una proposta così avrei fatto
salti di gioia alti come quelli che faceva Magic Johnson.
Lavorare in una radio è quello che ho sempre voluto fare, ma adesso che
succede? Quello che una volta per me sembrava libertà adesso mi sembra prigione.
Il motivo per il quale faccio il DJ in radio credo sia dovuto, oltre che al
mio amore per la musica, anche al fatto che sono un egocentrico per natura. Lo
sono sempre stato anche da piccolo. Mi ricordo quando andavo al lago con i miei
genitori. Passavo tutta la giornata a fare i tuffi. Prima di buttarmi però
chiamavo sempre mia madre per farmi vedere: «Mamma, mammaaa, guardamiii...». E
se, quando tornavo a galla, la vedevo chiacchierare con le sue amiche invece di
guardarmi, ci rimanevo malissimo. Non puoi capire come una cosa così piccola per
i grandi fosse un’enormità per me. Non aveva dato la giusta attenzione a Mister
Tuffo.
Cacchio, mi tuffavo nel lago e non mi guardava. Poi però quando facevo il
bagno a casa nella vasca ogni cinque minuti passava e mi chiamava: «Sei ancora
vivo?». Se non ero sott’acqua a sentire i mille rumori della casa rispondevo:
«NO!».
Comunque, io lo avrei guardato Mister Tuffo.
Ho passato tutta la mia vita a cercare qualcuno che guardasse i miei tuffi
e mi dicesse che ero stato bravo.
Andavo al mare per abbronzarmi e man mano che diventavo nero pensavo già a
cosa mettermi. Il primo pensiero volava alla camicia bianca, ma era troppo
scontata, avevo paura che si scoprisse la mia vanità. Meglio la maglia nera.
Egocentrico e vanitoso. La sofferenza era già alla porta.
Ho smesso di studiare presto, ho sempre avuto un brutto rapporto con la
scuola, ho fatto un sacco di lavori e in tutti volevo primeggiare, volevo
diventare qualcuno, insomma, volevo sempre fare dei bellissimi tuffi. Ora credo
di essermi semplicemente rotto le palle. Voglio tuffarmi solo per il gusto di
entrare in acqua.
Ma questo è veramente il lago dove mi voglio tuffare? È un periodo che
forse comincio a sentire la piccola strada del ritorno: sento una strana voce
che mi dice di fare un passo indietro, di essere sempre in campo, ma non più
come attaccante, meglio come portiere, o al massimo difensore.
Se la vita fosse una band, adesso vorrei suonare la batteria o il basso. Ma
forse è solo un voler ancora temporeggiare. Fare melina.
Anche nel frequentare le persone ho dato un giro di chiave, ho scremato un
po’ le amicizie: meno persone attorno, meno donne e relazioni inutili, meno
dispendio di energia e meno sorrisi forzati, tutto più intimo e sincero.
Ho eliminato il più possibile le donne McDonald’s per esempio, quelle che
ti fai quando l’ormone ti assale, quando sei super eccitato, quando lo sperma ti
annebbia la vista; quelle che ti fai perché hai fame, fame fame, ma che sai già
che poi ti pentirai. Come quando appunto vado da McDonald’s e mentre ordino il
Big Mac non vedo l’ora di mangiarlo e poi subito dopo mi odio per esserci andato
(a volte ne mangio anche due).
Goloso, goloso, goloso.
In generale diciamo che ultimamente nella mia vita ho messo all’ingresso un
omino che fa la selezione. Come davanti alle discoteche.
Il DJ in radio è un lavoro che mi piace, come in tutti i lavori ci sono dei
compromessi, ma non mi posso lamentare. Per compromessi intendo mettere in onda
anche canzoni che non mi piacciono molto, oppure essere sempre di buon umore, e
tu sai quanto sia difficile per me fingere il mio stato d’animo.
L’anno scorso il direttore della radio mi ha scelto per fare delle
pubblicità, mi ha anche offerto un sacco di soldi, e quando ho rifiutato sono
stato perfino costretto a giustificarmi.
Io faccio questo lavoro perché amo la musica e amo dire ciò che penso, e
anche se – come tutti – voglio guadagnare dei soldi, li voglio guadagnare
inseguendo i miei sogni. Non voglio guadagnare soldi inseguendo i soldi.
Non voglio essere ricco, voglio essere libero.
Una parte di me per esserlo deve avere dei soldi, per poter vivere, ma ce
n’è un’altra che per esserlo ha bisogno di tutt’altro.
Dentro di me esiste un omino che lavora part-time, un omino che quando si
sveglia deve fare, scrivere, disegnare, fare rumore; insomma deve farsi sentire,
e se durante la sua apparente assenza si sono fatte cose che non approva, lui
distrugge tutto. Io convivo con questo piccoletto ormai da anni, e se è vero che
ogni uomo ha un prezzo, ti assicuro che lui non ce l’ha e se non lo faccio
esprimere divento pazzo e vado in overdose di energia psichica.
Per questo non voglio semplicemente diventare ricco, perché devo essere
prima di tutto libero, altrimenti impazzisco e dei soldi non me ne faccio
niente.
Questo è un concetto che il mio direttore non capisce e non capirà mai,
nemmeno se gli faccio un disegno, nemmeno se gli parlo in stampatello.
Questo è un grande compromesso: avere a che fare ogni giorno con persone
che parlano un’altra lingua. Io non chiedo niente a loro se non di poter essere
me stesso, eppure, per poterlo essere, ho bisogno di giustificarmi.
Non ho ancora trovato il dizionario per tradurre il mio linguaggio con il
loro: quando devo parlare a questo tipo di persone mi mancano i vocaboli, spesso
i miei sinonimi sono i loro contrari.
Per fortuna che poi basta che metto in onda uno dei miei pezzi preferiti e
per un po’ sono anestetizzato, drogato, senza pensieri.
Credo che per me una delle fortune più grandi nella vita sia l’amore per la
musica. Ancora oggi quando sento un pezzo che mi piace, mi viene la pelle d’oca
e rimango in estasi, incantato dal pifferaio magico, e questo succede ovunque mi
trovi, e qualsiasi cosa stia facendo; anche se sto parlando mi interrompo, come
innamorato, catturato. In tutto questo delirio di vita, la musica è una
certezza. Farsi una canna la sera e ascoltarsi un cd in cuffia è ancora una cosa
che si può catalogare sotto la “I” di impagabile, e tu sai di che parlo: giusto
volume, bassi a palla, luci spente, solo grattacieli illuminati che salgono e
scendono nell’amplificatore... wow!
Meglio di un orgasmo. O quasi.
In casa mia lo stereo è sempre acceso, ho messo talmente tanti cd che c’è
stato addirittura un periodo in cui lo stereo sceglieva per conto suo. In realtà
si stava solo rompendo, ma prima di scassarsi del tutto aveva iniziato a
selezionare, a farsi un gusto personale. Alcuni cd li leggeva, altri non voleva
suonarli: non aveva nemmeno un brutto gusto, diciamo che a parte quella volta
che non voleva leggere Fight for your mind di Ben Harper, per il resto non
sbagliava, e spesso mi convinceva a cambiare.
Vivo di musica, nella mia vita c’è sempre un sottofondo musicale, ogni
momento importante della mia vita è legato a una canzone, e ogni volta che la
sento parte il mio videoclip personale.
Quando devo scendere dalla macchina e l’autoradio sta suonando un pezzo che
mi piace, non riesco a spegnerla, devo aspettare che finisca o se proprio sono
in super ritardissimo, per spegnere devo sfumare abbassando piano piano il
volume.
Qui te lo devo chiedere: «Nico, che musica ascolti ultimamente?».
Solo cose nuove che io nemmeno conosco, o nella colonna sonora della tua
vita ci sono ancora Jimi Hendrix, Bob Marley, Eric Clapton, Jeff Buckley, i
Police, gli Stones?
Spero che tu risponda a tutte queste domande quando leggerai questa
lettera, servirà anche a te per fare una specie di resoconto, per chiarirti
meglio le idee e capire meglio chi sei. Dalla musica che uno ascolta si
capiscono un sacco di cose.
Relazioni yogurt
Sentimentalmente... la mia vita è una frana. Come sempre non sono
fidanzato, ho delle storie, delle relazioni, ma a livello di rapporti di coppia
sono sempre immaturo, non so amare, sono come un bambino.
Immaturo, immaturo, immaturo.
Credo che sia paura. Paura d’amare. Credo sia restare soli per paura di
rimanere soli. Paura dell’abbandono. Non voglio essere abbandonato da nessuna
parte e da nessuno. Non voglio essere abbandonato a una fermata del tram, né in
un grande magazzino, o in un bar. Non voglio essere abbandonato da una donna, da
un amico, da una pianta, dalla mia famiglia e nemmeno abbandonato da me stesso.
Quando scendo troppo a compromessi sento che mi sto un po’ abbandonando. Ma non
voglio.
La mia paura di soffrire con le persone mi ha portato ad avere uno strano
meccanismo. Quando conosco qualcuno che mi piace cerco subito qualche difetto
anche piccolo e me lo metto lì da parte, e come un’arma la tengo pronta per
sferrarla in caso di necessità. Se la persona mi ferisce, quel piccolo difetto
[ Pobierz całość w formacie PDF ]

  • zanotowane.pl
  • doc.pisz.pl
  • pdf.pisz.pl
  • wiolkaszka.pev.pl
  •