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Fabio Volo
È UNA VITA CHE TI ASPETTO
MONDADORI
A Nicola
A voi che dall’albero della vita
cogliete le foglie e trascurate i frutti.
Silvano Agosti
Intro
Che freddo. Sono raffreddato. Del resto lo sapevo.
Si è fermata da me per la notte, e ho voluto dormire nudo, perché mettere la magliet-
ta mi sembrava poco macho. Pensare che lo so che se non mi metto la magliettina poi
prendo freddo. Ma a volte mi piace fare il figo, mi piace fingere di essere quello che non
sono. Faccio il duro a torso nudo e la mattina dico: «Babba bia che freddo». Ma mi sa
che questa è stata l’ultima volta.
Qualcosa è cambiato.
Mi sa che l’amo. Mi sa che per la prima volta sono innamorato. Intendo dire innamo-
rato veramente.
L’ho pensato perché ieri sera dopo aver fatto l’amore ho dormito dalla parte umida
del letto, dove lo avevamo fatto. Secondo me se dopo averla amata le ho lasciato la
parte asciutta, be’... questo è amore.
Mi sono svegliato con un braccio fuori dalle coperte: era praticamente congelato. Lei
se n’era già andata a lavorare. Me lo sono toccato (il braccio) con l’altra mano per cer-
care di riattivare la circolazione, o perlomeno per riscaldarlo e restituirgli
una temperatu-
ra da essere umano vivo.
Metaforicamente ho fatto al braccio quello che nell’ultimo periodo ho fatto alla mia vi-
ta: l’ho ripassata tutta con una mano invisibile e l’ho accarezzata cercando di restituirle
una temperatura da essere umano vivo.
Ora sto bene. Posso dirlo senza paura, sto proprio bene.
Nella mia vita ora circola calore. Sono vivo. Sono felice.
Vado in cucina a fare colazione e trovo la moka sul fornello, e appiccicato sopra un
post-it giallo con scritto:
“Il caffè è pronto, devi solo accendere”.
Mi siedo e rimango a guardare il bigliettino e la moka. Tutto è così semplice, e il suo
gesto mi commuove. Aspetto ancora un attimo, mi godo questo momento e poi accen-
do. Dopo qualche minuto la cucina si riempie di profumo. Profumo di caffè. Quanto mi
piace. Soprattutto la mattina. E io lo respiro, respiro il caffè, respiro la vita, ultimamente
così diversa, delicata, fragile, limpida, armoniosa. E intanto mi sento potente. Potente e
felice come Dio.
Accendo lo stereo e metto, per una mattina così meravigliosa, «Way to Blue. An In-
troduction to Nick Drake». Un album che rispecchia il mio stato d’animo, la mia situa-
zione.
La musica e il profumo di caffè si abbracciano nell’aria e danzano per me.
E io vorrei gridare: “Sono un uomo felice, grazie!”.
1
Liberatemi
«Cos’è, una malattia grave? Inguaribile? Insomma, che cos’ho? Dimmelo, non te-
nermi nascosto niente. Devo fare una TAC?»
Queste sono state le prime parole che ho detto guardando in faccia Giovanni quando
sono entrato nel suo ambulatorio, qualche giorno dopo che mi aveva fatto fare delle a-
nalisi.
Era parecchio che aspettavo l’esito, e non nascondo che avevo anche avuto paura.
In quei giorni sono stato molto agitato.
Non è facile per me capire da che punto devo partire a raccontare questa storia. Non
so dove sia esattamente l’inizio. Non so se cominciare da una decisione, o dai pensieri
che la fanno nascere, o dai sintomi che fanno nascere i pensieri, o da disagi, crisi... A-
damo ed Eva.
Innanzitutto, vorrei esternare lo stato d’animo che sto provando adesso nel trovarmi
di fronte a queste pagine bianche. Di fronte a questa incognita. Chissà come le riempi-
rò? Cosa c’è di meglio che essere curiosi di se stessi?
Pagina bianca come la vita. Le amo entrambe perché sono curioso di vedere come
va a finire.
Posso riempirle con cose stupide, discorsi o frasi di senso compiuto, o anche mettere
parole a caso. Senza regole, senza limiti. Citofono. Barchetta. Fiore. Suora. Balcone.
Prima era bianco, adesso c’è una parola. Una parola che prima non c’era.
Fatta questa premessa, posso iniziare a raccontare la mia storia. Non la mia vita. So-
lo una piccola storia della mia vita. Perché se non mi fosse capitata avrei continuato a
credere che queste cose non succedano.
Mi chiamo Francesco, ma tutti da sempre mi chiamano Checco, e circa cinque anni
fa, alla giovane età di ventotto anni, vivevo una vita che si potrebbe, senza farsi troppe
pippe mentali, definire “NORMALE”. Dico pippe mentali perché ogni volta che si usa la
parola “NORMALE” c’è sempre qualcuno che chiede: ma cos’è normale? E giù filosofia
a fiumi.
Per normale intendo senza grandi traumi o shock. Normale.
Mi ero laureato in Economia e commercio discutendo la tesi:
Il metodo di coordina-
mento economico: l’elasticità della microeconomia
.
Lavoravo da qualche anno per una società di leasing. La Finalta. Avevo una Golf 1.9
turbodiesel high-line, grigia, 115 cavalli, cambio automatico tiptronic. Autoradio con na-
vigatore, cerchi del 19 in lega. Tettuccio apribile e fari allo xeno.
Il motivo per cui avevo una macchina così superaccessoriata è che l’ho comprata da
un mio cliente che mi ha fatto un prezzo talmente basso che non ho potuto rifiutare. In
più, ho scaricato fiscalmente parte del valore della vettura recuperando l’IVA.
Avevo anche una bici da corsa e sempre la mia vecchia Vespa 50 che ho comprato
quando avevo quindici anni. Vivevo da solo in un bilocale che pagavo con un mutuo di
quindici anni al 7% di interesse euribor a sei mesi + 1,30 di spread.
Alla lettura del contratto, il giovane notaio figlio del notaio, dopo aver elencato una
serie di punti che non ho nemmeno capito perché andava troppo velocemente, ha in-
cassato un assegno di circa otto milioni di lire. Sette milioni e settecentomila per la pre-
cisione.
Pare che i notai guadagnino molto perché hanno dovuto studiare parecchio. Sembra
che quel
parecchio
sia a spese nostre. Forse pensano che, quando loro stavano stu-
diando, noi eravamo in giro a non fare un cazzo.
Il bilocale è al secondo piano di una palazzina con giardinetto di ghiaia che però dal
mio appartamento non vedo perché le stanze danno sulla strada. Quando torno a casa,
passeggiando nel giardinetto sento lo scricchiolio dei sassettini. A occhi chiusi so distin-
guere il rumore di passi, di biciclette o quello di passeggini.
Riesco addirittura a indovinare se chi cammina è giovane o anziano. Ho un margine
d’errore talmente basso che potrei presentarmi a qualche programma televisivo. Se non
fosse che ho vergogna delle telecamere, già mi vedrei: “Signore e signori, è qui con noi
anche questa sera il campione dei campioni, l’uomo che grazie al suo straordinario ta-
lento ha vinto un montepremi di cinquecentomila euro, il signor Checcoooo... un ap-
plausooo. E ora vaiii con la passeggiata misteriosa...”.
Nell’atrio della palazzina, a fianco dell’ascensore c’è appeso un regolamento:
• Vietato parcheggiare biciclette, passeggini o altro nell’atrio.
• La battitura di tappeti o altro può essere effettuata soltanto dalle ore otto alle ore
dieci durante la stagione invernale e dalle sette alle nove durante la stagione estiva.
• Vietato stendere biancheria, panni o altro alle finestre verso strada.
• Vietato disturbare i vicini, sia quelli dei piani inferiori che quelli dei piani superiori,
manovrando oggetti in maniera da produrre rumori o con schiamazzi, suoni, canti, dan-
ze o usando apparecchi radio, televisori a volume eccessivo.
Questi sono i punti che ricordo ma ce ne sono molti altri.
Vivendo al secondo piano con vista sulla strada, quando sfrecciano la notte le mac-
chine, dal rumore mi sembra che passino tra il comodino e il letto. Ma ormai ci sono abi-
tuato. L’unica cosa che ancora sento sono le marmitte truccate dei motorini, gli antifurto
e i camion della nettezza urbana che portano via il vetro. Quelli mi spaventano sempre.
Una volta ho fatto un finesettimana in montagna e ho faticato a addormentarmi per il
troppo silenzio.
Pensare che quando abitavo dai miei non si sentiva niente. Tranne l’inquilino del ter-
zo piano che usciva dal garage con la sua Fiat Punto bianca. Il signor Pedretti per la
precisione, pensionato sulla settantina che credo si potesse tranquillamente iscrivere al
campionato
Chi ci mette più tempo a uscire dal garage?
Il rumore delle sue manovre era evidenziato da un utilizzo un po’ lento della frizione e
uno troppo pesante dell’acceleratore. Questo stile portava il motore della Punto a circa
dieci-dodicimila giri.
L’appartamento, l’ho arredato appena l’ho preso e non manca niente. Con l’idea che
avrei comprato tutto una volta per sempre, ho scelto ogni cosa con accurata attenzione.
Letto matrimoniale della Flou con spalliera alta. Divano di Cassina. Tavolino Philippe
Starck e lampada Arco della Flos. Pavimento in parquet anche in bagno. Stereo com-
posto da: giradischi Thorens, piastra, cd e amplificatore McIntosh, casse Tannoy. E un
televisore Sony.
Ma soprattutto ho realizzato il sogno della mia vita: il frigorifero anni Cinquanta blu
della Smeg.
Ho speso talmente tanti soldi che per un po’ sono stato forzato al risparmio. Anche
nelle piccole cose. Ad esempio ho dovuto fumare le Diana e uscire di casa solo dopo
cena. Già mangiato. Che coglione!
Nonostante tutte queste cose, però, non ero felice. Soprattutto non ero una persona
libera.
Addirittura certe notti mi capitava di svegliarmi agitato e non riuscire più a riaddor-
mentarmi. Avevo paura. Avevo paura, ma non sapevo di cosa. Semplicemente provavo
una sensazione di paura senza conoscerne il motivo.
Mi sentivo angosciato, pieno di ansie e mi ritrovavo sveglio.
Sveglio come se avessi dormito diverse ore.
Desideravo soltanto un po’ di quiete. Non chiedevo molto. Volevo solo stare bene.
A volte mi succedeva anche durante la giornata, mentre ero seduto alla scrivania, o
magari quando ero solo in macchina. Guidavo e mi veniva come da piangere, mi assali-
va questa sensazione e non capivo cos’era.
Non sapevo come gestirla, non aveva maniglie, non potevo afferrarla, controllarla,
non c’era via d’uscita. Sentivo un peso sul torace e volevo uscire da me stesso, strap-
parmi la pelle di dosso, scappare!
Qualcosa dentro di me era in disordine.
Quando cercavo di capire, quando cercavo una spiegazione logica, non trovavo ri-
sposta.
Razionalmente andava tutto bene.
Sì, è vero, ultimamente il lavoro non lo amavo molto, e spesso c’erano giorni in cui
avrei voluto fare qualsiasi altra cosa pur di non andare in ufficio, ma a chi non succede?
Alla fine non guadagnavo male e in confronto a tante altre persone ero fortunato. Non
mi potevo certo lamentare. E di cosa dovevo aver paura, poi?
Andava tutto bene. Eppure.
Forse avevo paura di perdere tutto. Quel tutto che andava bene. Boh! Avrei dovuto
chiedere a un analista. Ma ormai è passata. Non serve più. Non serve più l’analista, non
servono più tranquillanti, antidepressivi, sballi da droghe né trasgressioni sessuali. Nes-
suna alterazione della coscienza. Non serve più niente.
È passata. Adesso sto bene. Finalmente.
Queste sensazioni di paura mi venivano anche di giorno, ma la notte... la notte mi
schiacciavano la faccia contro il muro, e mi sembrava di essere preso in ostaggio. Spe-
ravo solo che la luce del mattino arrivasse a pagare il riscatto per liberarmi. Stavo male.
Cominciavo a pensare che probabilmente mi stava per succedere qualcosa di brutto,
un incidente, una disgrazia. Pensavo al resto della vita su una sedia a rotelle, oppure
immaginavo di diventare cieco, o di perdere i genitori. Avevo paura di morire.
Spesso mi capitava che, cercando un motivo per giustificare quella paura, in realtà i-
niziavo a pensare e così da solo mi creavo nuovi fantasmi che non facevano che peg-
giorare il mio stato di ansia. Entravo in un gioco malato in cui immaginavo, per esempio,
il resto della mia vita senza mio padre o mia madre.
“Come farò senza di loro...?

mi chiedevo.
E allora sentivo l’esigenza di chiamarli subito per dirgli che li amavo, e che, anche se
non glielo avevo mai detto, io li amavo, li amavo da morire. Una notte, erano le quattro
e trentasette, ricordo ancora quei numeri sulla sveglia, mi sono alzato e sono andato
verso il telefono. Mi sono guardato allo specchio e ho visto in faccia la paura. Ho iniziato
a comporre il numero e nel silenzio fra l’ultima cifra e il primo squillo ho messo giù. So-
no andato in bagno a lavarmi la faccia con l’acqua fredda, poi sono tornato al telefono.
Sentivo che potevo morire da un momento all’altro. Era l’unica e ultima occasione per
dirglielo. Questa volta, a metà numero ho rinunciato. Mi sono calmato e ho capito che,
essendo molto tardi, se li avessi chiamati sarebbero morti loro. Dallo spavento.
Sono andato in bagno perché mi era venuto un attacco di...
Era finita la carta. Mi sono alzato e ho passeggiato con le mutande alle caviglie fino
all’armadietto. Ho iniziato il rotolo nuovo ma l’ho strappato male. È rimasto un pezzetti-
no attaccato e per pareggiare la carta ho dovuto srotolarne dei metri. Che nervi. Che
notti.
Sono tornato a letto.
Non trovavo una posizione comoda. Ci sono delle volte in cui ho la sensazione che
due braccia siano troppe per dormire bene. C’è un braccio che non si sa dove mettere.
Senza, secondo me, si dormirebbe meglio.
Una notte mi sono addormentato sopra quel braccio. Mi sono svegliato e non lo sen-
tivo più. Era anestetizzato. Che paura! Ho pensato subito che dovessero amputarmelo.
Il solito ottimista.
In quelle notti di panico mi assalivano ricordi vestiti di malinconia e le scene nella
memoria si svolgevano lentamente, quasi al rallentatore, come in un film. Si iniziava a
proiettare
Nuovo cinema paranoie
. Rivedevo mia madre quando mi insegnava a fare il
pane in casa, quando entrava nella mia cameretta a controllare o a mettere a posto
qualcosa e io fingevo di dormire. Fingevo di dormire, e da quel piccolo spiraglio, da
quella piccola fessura dei miei occhi appena aperti la osservavo di nascosto. Chissà,
forse speravo di rubare, di carpire, di imparare qualcosa di nuovo di lei, qualche suo
segreto, per farla ancora più intima, ancora più mia. La mia mamma.
Pensavo a quando da piccolino mi teneva in braccio e io, appoggiando la testa sulla
sua spalla, guardavo tutto da lassù. Come un pellegrino che, arrivato sulla cima del
monte, guarda la strada che ha già percorso e quella sconosciuta che ancora lo atten-
de.
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